Il clan Strisciuglio di Bari avrebbe preteso una “tassa di sovranità”, il cosiddetto “rispetto”, sulle attività economiche lecite e illecite del quartiere Libertà, come riconoscimento del “potere di controllo mafioso del territorio”.
Chi si fosse rifiutato “avrebbe dovuto essere punito con una condanna a morte”. Lo scrive il gup del Tribunale di Bari Francesco Pellecchia nelle motivazioni della sentenza di primo grado sul duplice omicidio di Luigi e Antonio Luisi, padre e figlio.
Il 30 aprile 2015 fu ucciso in un agguato il figlio Antonio e ferito il padre, referente del clan rivale Mercante, vero obiettivo dei killer. Il figlio, estraneo ai contesti criminali, fu ucciso per errore perché si frappose tra i sicari e il padre per salvarlo. Il 31 ottobre 2016 il clan portò a termine l’obiettivo, ammazzando Luigi Luisi.
Per quei fatti nel dicembre scorso sono stati condannati a pene comprese tra i 20 anni e i 16 anni di reclusione otto affiliati al clan Strisciuglio.
Nelle motivazioni il giudice spiega che dopo la scarcerazione nel marzo 2015 del pluripregiudicato Vito Valentino, il clan Strisciuglio, con “l’obiettivo di acquisire il monopolio nella gestione del traffico degli stupefacenti sul quartiere Libertà”, avrebbe iniziato una “imposizione mafiosa” sul clan Diomede, “storicamente presente in quella zona, il cui referente era appunto Luigi Luisi e che per queste ragioni doveva essere necessariamente eliminato”.
Inoltre Luisi si sarebbe rifiutato di continuare a rifornire di stupefacenti i rivali Strisciuglio e di pagare 200mila euro chiesti per continuare la sua attività di trafficante di droga. Il rifiuto sarebbe stato “additato come un reato di lesa maestà, aprendo la strada alla giustificazione di quello che doveva essere un omicidio eccellente di mafia barese”.
Il Gup ha poi condannato a 150 anni di carcere gli otto presunti responsabili tra mandanti, pianificatori, esecutori materiali e fiancheggiatori.