Una comunità sotto shock, quattordici famiglie la cui vita è stata sconvolta da una storia che da venerdì sta facendo il giro d’Italia. Un fatto di cronaca che ha aperto il dibattito sul segno dei tempi, su cosa siamo diventati, sulla noia che sembra essere diventata la triste compagna delle nuove generazioni. A Manduria il giorno dopo l’iscrizione nel registro degli indagati di 14 ragazzi (dodici di questi anche minorenni), accusati di aver provocato la morte di Antonio Cosimo Stano, si discute sul perché ciò sia accaduto, se quella tragedia si sarebbe potuta evitare e, soprattutto, se c’era chi sapeva e ha preferito tacere o girare la testa da un’altra parte. E’ una storia che porta in prima pagina una baby gang con le sue vessazioni, i furti e le violenze fisiche nei confronti di quell’uomo di 66 anni, pensionato morto dopo 18 giorni di agonia in rianimazione nell’ospedale di Manduria. I componenti del branco (due maggiorenni e dodici ragazzi con meno di 18 anni) avevano creato anche un gruppo whatsapp sul quale oltre ai messaggi sarebbero circolati anche i video delle aggressioni. Ci sarebbero 6 filmati a disposizione degli inquirenti che hanno iscritto nel registro degli indagati i componenti della baby gang. I reati contestati sono pesantissimi e vanno dal danneggiamento alle minacce, violazione di domicilio, aggressione e omicidio preteritenzionale in concorso con l’aggravante dello stato di inferiorità della vittima. Le indagini sono coordinate dai pubblici ministeri remo Epifani per la Procura ordinaria e Pina Montanaro per quella dei minorenni. Antonio Cosimo Stano è morto dopo 18 giorni di agonia anche se solo l’esito dell’autopsia dirà se a causare il decesso potrebbe essere stata una perforazione gastrica per la quale due volte i medici dell’ospedale di Manduria sono dovuti intervenire chirurgicamente per fermare l’emorragia. Ma il 66enne potrebbe essere morto a causa dello stato di prostrazione e degrado in cui era caduto dopo essere stato bullizzato da quella baby gang. A Manduria adesso non si parla d’altro e molti, attraverso i social network, esprimono rabbia e indignazione nei confronti dei protagonisti delle violenze e di quanti, pur essendo a conoscenza delle aggressioni, non abbiano fatto abbastanza per impedirle.